Un problema che ha da sempre attanagliato l’uomo è quello della
morte, in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue implicazioni. Di
fronte a tale fatto o momento (ineluttabile) l’uomo di ogni tempo
ha cercato di sondare ciò che non era noto, alla ricerca di
risposte, dando vita a profonde discussioni non solo teologiche, ma
in senso più ampio filosofiche, involgendo l’esistenza e l’essenza
dell’essere umano.
Rispetto a tali dimensioni e problematiche il Diritto è quasi
estraneo, ma non indifferente.
Disse quel filosofo: dunque il male che più ci fa rabbrividire,
cioè la morte, è nulla per noi, dal momento che quando noi viviamo
la morte non c’è, quando invece c’è la morte, allora non siamo
più noi. Dunque la morte non ci riguarda, né quando siamo vivi, né
quando siamo morti, perché per i vivi essa non c’è, i morti,
invece, non sono più.
Se tale impostazione edonista può apparire, in un primo momento, un
porto rassicurante per l’inquietudine esistenziale, non è
altrettanto soddisfacente per il sistema economico-sociale-giuridico.
Il momento della dipartita produce conseguenze nel mondo-comunità,
che, invece, continua ad esistere, operare ed interagire. Dal mero
punto di vista patrimoniale-economico, i diritti e gli obblighi, che
fanno capo ad un soggetto, possono, di regola, sopravvivere al
titolare e vi è la necessità di regolarli.
In tal senso, il Diritto si preoccupa di ordinare aspetti dell’evento
morte, solo ad una prima analisi, più “triviali”, legati alla
sistemazione del patrimonio del defunto.
In realtà, tali aspetti sono densi di significato, perché possono
involgere non solo la sistemazione di interessi meramente economici,
ma direttrici fondamentali come la famiglia, la proprietà privata,
la libertà individuale.
Gli interessi privatistici-individuali sono intrecciati con gli
interessi generali di certezza e di continuità dei traffici
economici. Il loro bilanciamento dipende da precise impostazioni
sociali, politiche e culturali.
Nonostante la morte della persona fisica, alcuni rapporti,
soprattutto quelli a carattere patrimoniale, permangono e in linea
teorica, con riguardo alla loro sorte, sono ipotizzabili almeno tre
diverse soluzioni:
1) alla morte del soggetto lo Stato raccoglie il contenuto di questi
rapporti, o
2) i beni che ne formano oggetto diventano res nullius, oppure
3) i rapporti stessi sono trasmessi ad altro soggetto, che ne diventa
titolare nella stessa posizione del defunto.
Delle tre soluzioni, l’ordinamento italiano ha accolto l’ultima:
l’istituto della successione rimane congegnata come manifestazione
del diritto di proprietà, escludendo l’attribuzione alla
collettività dei rapporti vacanti a seguito della morte del loro
titolare, se non in ipotesi estrema e residuale.
La possibilità che il patrimonio venga trasferito ad altri soggetti,
magari della cerchia famigliare (piuttosto che divenire res nullius o
essere acquisito dallo Stato), dovrebbe essere di stimolo e di
incentivo per lo sviluppo e l’incremento del patrimonio stesso, a
vantaggio non solo del singolo, ma, in un’ottica di più ampio
respiro, dell’intera comunità economico-sociale fino allo Stato.
Nel nostro ordinamento l’art. 47 Cost. sancisce che la Repubblica
incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme, scopo tradito
se si ammettesse la perdita o la dispersione del patrimonio a seguito
dell’evento morte, non essendo tutto ciò di stimolo alla
conservazione e all’incremento della ricchezza.
È così rintracciabile l’esigenza sociale di conservazione e
continuazione dei rapporti giuridici, assicurando dunque le legittime
posizioni dei creditori e più in generale di evitare non solo una
verosimile distruzione o immobilismo di ricchezza (una sorta di “mano
morta”), ma anche il disordine nei rapporti giuridici (se il
patrimonio andasse disperso divenendo res nullius), riconoscendo
meritevole di tutela anche l’autonomia privata del disponente. Uno
degli scopi fondamentali della Legge è assicurare la certezza dei
rapporti giuridici e la loro ordinata disciplina, quindi la pace
sociale tra i consociati.
Invero, poi, il Diritto non è completamente indifferente ad aspetti
che trascendono il campo economico-sociale, per afferire ad aspetti
più “umani”, espressione di una pietas che esula da
considerazioni patrimonialistiche.
Il Legislatore assicura e tutela la volontà del de cuius circa la
destinazione delle proprie spoglie mortali. Si pensi ai principî
fissati dall’art. 3 della L. 30 marzo 2001 n. 130 sulle
Disposizioni in tema di cremazione e dispersione delle ceneri.
A livello penale, il Legislatore ha previsto i delitti contro la
pietà dei defunti agli artt. 407-413 cod. pen. (violazione di
sepolcro, violazione delle tombe, turbamento di un funerale o
servizio funebre, vilipendio di cadavere, distruzione, soppressione o
sottrazione di cadavere, occultamento di cadavere, uso illegittimo di
cadavere), peraltro procedibili d’ufficio. In tali casi, non è
riscontrabile un interesse privato sulle proprie spoglie (di un
soggetto che ormai non c’è più), ma sembra rilevare la pietas che
involge l’entità che rivestì la persona.
Nell'ordinamento italiano la disciplina della successione a causa di
morte è contenuta essenzialmente nel Codice civile, che dedica
all'istituto il Libro II (rubricato "Delle successioni").
Alla disposizioni generali, contenute nel Titolo I, seguono la
disciplina della successione legittima (Titolo II) e della
successione testamentaria (Titolo III), mentre gli ultimi due titoli
trattano della divisione e delle donazioni.
Non si può sottacere, poi, che nel nostro ordinamento il testamento,
per quanto rappresenti il veicolo principe per disporre delle proprie
sostanze per il tempo successivo alla propria morte, non lo si può
immiserire a tale visione, essendo consentito regolare una pluralità
di interessi a carattere non patrimoniale.
Come noto, il testamento è un negozio giuridico unilaterale non
recettizio, formale, revocabile, personale, unipersonale, a titolo
gratuito e tendenzialmente patrimoniale. Ai sensi dell’art. 587
cod. civ., è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il
tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o
di parte di esse.
Aggiunge il capoverso che le disposizioni di carattere patrimoniale,
che la legge consente siano contenute in un testamento, hanno
efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento,
anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale.
Emerge, così, il carattere della tendenziale patrimonialità del
negozio mortis causa.
Proprio il riconoscimento della volontà concernente non solo i beni,
ma anche interessi non patrimoniali, induce a ritenere (anche se non
in modo pacifico) che l’accezione di testamento, accolta dal
legislatore, non sia solo il concetto ristretto (espressione della
volontà dispositiva dei beni, comma 1, art. 587), ma anche quello
ampio (possibilità di racchiudere disposizioni di ultima volontà
che possono anche non ripercuotersi sui beni): testamento come
nozione unitaria di negozio volto a regolare una pluralità di
interessi, patrimoniali e non, post mortem.
Circa l’importanza di tali disposizioni non patrimoniali, si pensi
alle disposizioni sulla propria sepoltura, al riconoscimento di
figlio naturale (art. 254 cod. civ.), alla dichiarazione di volontà
di legittimare un figlio naturale (art. 254 comma 2 e art 285 comma 1
cod. civ.), alla designazione del tutore del protutore (artt. 348
comma 1, 355 e 345 comma 1 cod. civ.) o del tutore dell’interdicendo
e del curatore dell’inabilitando (artt. 424 comma 3 cod. civ.),
alla dichiarazione di riabilitazione dell’indegno (art. 466 comma 1
cod. civ.), piuttosto che alla confessione (art. 2735 cod. civ.), per
non parlare delle decisioni sul diritto morale di autore, delle sorti
della corrispondenza e di altri scritti di carattere personale e
confidenziale del defunto.
Quale strumento di attuazione e di valorizzazione di interessi
variegati post mortem, il testamento costituisce un istituto
socialmente rilevante, ove il legame volontà-sentimento dell’uomo
è quanto mai presente, forte e rilevante.
Nel sistema codicistico la successione è un modo di acquisto (a
titolo derivativo) della proprietà (art. 922 cod. civ.),
coerentemente col concetto di diritto di godere e disporre della cosa
in modo pieno ed esclusivo (art. 832 cod. civ.).
A livello Costituzionale l’art. 42 co. 4 Cost. demanda al
legislatore ordinario la regolamentazione della successione legittima
e di quella testamentaria: si profila, così, l’istituto della
successione per causa di morte, istituto che, da un lato, presuppone
l’altro istituto della proprietà e, dall’altro, si ricollega
all’istituto familiare, nonchè al rispetto dell’ultima volontà
del defunto, sullo sfondo rimanendo la particolare e residuale
ipotesi della successione dello Stato.
Infatti, ammesse la proprietà privata, la trasmissione ereditaria e
la libertà testamentaria, quest’ultima non è assoluta, essendo
contemperata dal principio della successione familiare, prevista e
disciplinata dal Legislatore ordinario. Il solidarismo familiare
impone di riservare una parte del patrimonio ai congiunti più
stretti (con imputazione di quanto ricevuto dal de cuius in vita per
donazione).
Anche la successione legittima mira a destinare la ricchezza a favore
della cerchia famigliare, coniuge e parenti prossimi. Ancora a titolo
esemplificativo, si pensi alla revocazione di diritto del testamento
per sopravvenienza di figli (art. 687 cod. ci.) oppure all’assegno
spettante ai figli naturali non riconoscibili (artt. 580 e 594 cod.
civ.).
La molteplicità degli interessi sottostanti il diritto ereditario
ripropone la dialettica tra libertà e norma.
Il delicato bilanciamento di tutti gli interessi finora esposti
(peraltro, convergenti ed armonizzati) entra, forse, in una nuova
dimensione in seno all’Unione Europea, quasi di evoluzione
dall’ottica patrimoniale-individuale, passando per la visione
sociale del fenomeno successorio.
A livello europeo, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea di Nizza del 2000 all’art. 17 sul diritto di proprietà e
sotto il Titolo dedicato alle Libertà espressamente afferma che ogni
individuo ha il diritto di godere dei beni che ha acquistato
legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità.
Dunque, pare affermato un nuovo collegamento tra proprietà e
libertà, un’idea di proprietà quale espressione di libertà,
frutto di un percorso evolutivo europeo, di innovazione rispetto al
secolo precedente e al concetto di diritto sociale.
Il nuovo collegamento tra proprietà e libertà, affermato dalla
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, è l’evoluzione
di un principio già in nuce non tanto nella CEDU (del 4 novembre
1950, ratificata in Italia con L. 4 agosto 1955 n. 842 ora
“comunitarizzata” dal Trattato di Lisbona ex artt. 6 e 47), la
quale si limita a riconoscere il diritto alla libertà e alla
sicurezza, i diritti di libertà individuale e collettiva senza
menzionare espressamente il diritto di proprietà, quanto nel primo
Protocollo aggiuntivo del 20 marzo 1952 art. 1, ove si legge ogni
persona fisica o morale ha diritto pieno al rispetto dei suoi beni.
Nessuno può essere privato della sua proprietà salvo che per causa
di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai
principi generali del diritto intenzionale.
Qui l’ottica era nel rapporto proprietà-libertà, quindi come
limite all’espropriazione.
Nella Carta di Nizza si sviluppa l’idea di proprietà espressione
di libertà. Non si tratta di un ritorno ad un’idea
liberal-ottocentesca di proprietà come libertà. Non si tratta di
fondamentalizzare i diritti soggettivi, rendendoli tutti fondamentali
(così annacquandoli), ma di bilanciarli. Oggi la proprietà nel
diritto europeo non è libertà, ma strumento di libertà, da
bilanciare con altri diritti fondamentali (non a caso una norma
rilevante a tal fine è il divieto di abuso di diritto sancito
dall’art. 54 della Carta).
Di regola, tornando all’argomento principale, si trasmettono i soli
diritti patrimoniali. A questi, poi, fanno eccezione alcuni diritti
patrimoniali intrasmissibili (ad esempio i diritti reali di uso o
abitazione legati alla vita del titolare; i rapporti intuitus
personae come il contratto di mandato, di lavoro subordinato e
d’opera; i rapporti patrimoniali legati allo status famigliare,
come il diritto agli alimenti).
Vi sono, poi, posizioni attive che si estinguono con la morte del
loro titolare, come i diritti della personalità e i rapporti e gli
stati famigliari.
Cosa diversa è che l’erede o il successore particolare acquistino
diritti a titolo originario, che non esistevano nel patrimonio del
defunto. Si tratta di quei diritti originari che nascono per la prima
volta in capo all’erede in quanto tale e che, quindi, non trovano
nella morte del de cuius la causa dell’acquisto, ma solo il momento
del loro venire ad esistenza (si pensi a quanto venga acquistato iure
proprio, in base ad un contratto condizionato alla morte di una
persona).
L’erede acquista, inoltre, alcuni diritti a titolo originario che
non esistevano nel patrimonio del defunto: pensiamo al diritto di
acquistare l’eredità, o a rinunziarvi; al diritto a richiedere la
riduzione, se legittimari; al diritto di rappresentazione o di
accrescimento. Per non tacere, poi, degli obblighi che nascono ex
novo (ad esempio, i diritti – legati ex lege – spettanti ai figli
naturali non riconosciuti, ex artt. 580 e 594 cod. civ.).
Diversa è l’ipotesi di continuazione in un diritto: tale è il
caso del possesso, in cui il successore non subentra al de cuius, ma
ne continua solo l’esercizio (art. 1146 cod. civ.). In questa
ipotesi, tuttavia, si hanno sempre due possessi.
Da quanto detto si può concludere che funzione pratica della
successione è di provvedere alla sorte del patrimonio che permane,
nonostante la morte del suo titolare.
Dal punto di vista giuridico, invece, essa si riallaccia alla figura
della successione in generale, importando il subentro di un
determinato soggetto in uno o più rapporti che restano
oggettivamente immutati.
L’immutabilità oggettiva dei rapporti che si trasmettono mortis
causa può dirsi fenomeno pacifico nella dottrina,
solo una voce si è levata contro in quanto un valente Autore
ha affermato che l’erede acquisterebbe rapporti nuovi, pur se
d’identico (azioni contrattuali di adempimento, risoluzione e
rescissione, azione di risarcimento del danno, azione a difesa dei
diritti reali etc.), e dall’altra, una tutela nuova, nel senso che
non spettava al defunto (l’azione di riduzione contro la lesione di
legittima, l’accettazione con beneficio d’inventario, l’azione
di collazione, l’azione di divisione e la petizione d’eredità,
che rappresenta la sua più rilevante tutela).
Quanto, poi, ai legittimarî, il codice prevede una tutela specifica,
denominandola “della reintegrazione della quota riservata ai
legittimari” o azione di riduzione.
Questa teoria, tuttavia, non è accettabile: a parte, infatti, la
considerazione che non ve n’è traccia nella legge, ove si
ammettesse una trasformazione nei rapporti stessi, dovrebbe anche
ammettersi il venir meno delle garanzie ad essi inerenti (arg. ex
art. 1275), il che, almeno secondo il nostro ordinamento, è
inconcepibile.
Cosa diversa è l’acquisto di diritti a titolo originario, che non
esistevano nel patrimonio del de cuius, cui si è accennato poco
sopra.
Da quanto detto si può affermare che la morte non è solo
quell’evento naturale a cui si ricollega l’apertura della
successione, ma è il fatto giuridico, il titolo cui si ricollega la
successione stessa.