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lunedì 27 gennaio 2014

La successione dello Stato

 La successione dello stato è un istituto giuridico dell'ordinamento civile italiano che prevede la devoluzione dell'eredità allo Stato italiano nel caso in cui il de cuius, morto intestato, non abbia eredi legittimi fino al sesto grado.
In questo caso l'acquisto opera di diritto senza accettazione e non può essere oggetto di rinunzia. Lo stato non risponde mai dei debiti e dei legati oltre il valore dei beni acquistati. La disciplina è dettata dall'articolo 586 del codice civile.
La ratio di questo tipo di successione a causa di morte va individuata non solo nell’esigenza di supplire alla mancanza di ogni successibile, ma anche nello sfavore del legislatore verso una successione ereditaria non fondata sul lavoro né sul risparmio ed a vantaggio di soggetti non legati al de cuius da stretti rapporti di parentela.
Ciò spiega perché, mentre nel Codice abrogato del 1865 l’eredità si devolveva allo Stato solo in mancanza di congiunti entro il 10º grado, il Codice vigente del 1942 ha ridotto la successione dei parenti entro il 6º grado.
Presupposto della successione dello Stato è una "eredità vacante", fenomeno che ricorre quando manca ogni successibile legittimo e testamentario; la vacanza può anche verificarsi qualora i successibili esistano ma abbiano perduto il diritto di accettare per rinunzia, prescrizione o decadenza.
L’eredità vacante si distingue dall’eredità giacente perché quest’ultima presuppone la possibilità di una futura accettazione: al contrario, quella vacante presuppone accertato in modo definitivo che non vi siano più successibili.
Quanto alla natura giuridica di questa successione, una parte della dottrina (meno recente) riteneva che lo Stato non era né erede né legatario, ma che veniva ugualmente alla successione in quanto aveva la sovranità su tutti i beni situati sul proprio territorio, i quali solo per concessione si ritenevano attribuiti in godimento ai singoli cittadini, e pertanto «alla morte del concessionario i beni ritornavano allo Stato». In contrario, si è osservato che questa teoria non spiega come mai lo Stato non possa riprendere in ogni momento i "suoi" beni, ma debba attendere la mancanza di successibili.
Altra parte della dottrina considera lo Stato come successore a titolo particolare, tenuto soprattutto conto della responsabilità intra vires, del carattere necessario della successione, e della correlativa esclusione del potere di rinunzia.
Dottrina prevalente ritiene che lo Stato sia un vero e proprio successore legittimo e a titolo universale.
La tesi della successione a titolo di erede si basa sulla considerazione che lo Stato acquista l’eredità come universalità: pertanto, la ragione della successione dello Stato è nella sua funzione pubblica, ma questa funzione viene analizzata utilizzando il mezzo tecnico apprestato dal diritto privato, vale a dire la successione a titolo di erede.
L’acquisto dello Stato opera di diritto, senza bisogno di accettazione, e non può farsi luogo a rinuncia (art. 586 del Codice civile). La necessità dell’acquisto importa la limitazione della responsabilità intra vires. La norma che prevede una responsabilità limitata dello Stato (art. 586, comma 2, cod. civ.) non è che l’adattamento alla particolare posizione dello Stato del principio stabilito dall’art. 473 (Codice civile) per le persone giuridiche in genere.
Allo Stato spetta anche il diritto di accettare l’eredità che eventualmente faccia parte del patrimonio del quale lo Stato è erede (art. 479 cod. civ.); naturalmente, questa eredità (=quella contenuta) non si acquista automaticamente, e quindi in linea di principio lo Stato può accettarla o rinunziarvi.
È discusso se si possano trasmettere allo Stato i vantaggi di un’assicurazione sulla vita stipulata dal dante causa a favore degli eredi. La risposta è negativa, poiché ai sensi dell’art. 1920, ultimo comma, cod. civ., questo diritto non fa parte dell’asse ereditario, ma è acquistata dal terzo beneficiario in base al contratto di assicurazione, cioè con un attointer vivos.

Le quote di legittima

 In diritto con il termine successione legittima (Lat. Successio ab intestato) si fa riferimento alla successione che ha luogo quando il defunto (o de cuius) non abbia provveduto a redigere testamento, ovvero, pur avendo redatto il testamento, questo è nullo o annullato ovvero dispone solo per una parte dei beni ovvero solo legati.
La legge stabilisce che l'eredità si devolve:
  • al coniuge,
  • ai discendenti legittimi o naturali,
  • agli ascendenti legittimi,
  • ai collaterali,
  • agli altri parenti entro il sesto grado,
  • e infine allo Stato.
Quote della divisione1 sono diverse a seconda delle persone che sopravvivono al de cuius.
  1. discendenti ma non il coniuge: l'eredità è divisa in parti uguali tra i figli. Se un figlio è premorto e ha a sua volta figli, questi ereditano la parte che gli sarebbe toccata dividendola tra loro sempre in parti eguali, in base al diritto di rappresentazione (Cod. Civ. artt. 467-469). Questo stabilisce che i figli (e, per applicazione ricorsiva dello stesso diritto, tutti i discendenti) subentrano al genitore che non può (per morte o esclusione per indegnità) o non vuole (per rinunzia) succedere. In pratica, tra tutti i discendenti ha luogo una divisione per stirpi, che si contrappone a quellaper linee e per capi che vedremo dopo. Per esempio, se il de cuius ha un figlio vivente e tre nipoti da un figlio premorto, il figlio vivente avrà metà dell'eredità e i nipoti un sesto ciascuno. Non si distingue tra figli naturali, legittimi e legittimati; i figli adottivi ereditano dagli adottanti ma non dai parenti di questi ultimi.
  2. discendenti e coniuge: al coniuge tocca metà dell'eredità se concorre con un solo figlio, un terzo se i figli sono due o più. La divisione tra i figli avviene come nel caso precedente, e vale sempre il diritto di rappresentazione (per i figli, non per il coniuge). Per esempio, se il de cuius lascia il coniuge, due figli (o figlie) e due nipoti da un figlio premorto, al coniuge tocca un terzo, ai figli superstiti due noni ciascuno (un terzo di due terzi) e ai nipoti un nono ciascuno (metà di un terzo di due terzi).
  3. coniuge, ma non discendenti, ascendenti o collaterali: al coniuge va l'intera eredità.
  4. coniuge, ascendenti e/o collaterali, ma non discendenti: al coniuge vanno i due terzi, agli ascendenti e/o collaterali un terzo(art. 582 c.c.). Vedi sotto per la divisione tra questi ultimi.
  5. ascendenti e/o collaterali, ma non il coniuge e discendenti: l'intera eredità è divisa tra ascendenti e/o collaterali. La divisione tra ascendenti e collaterali segue queste regole: in generale, fratelli, sorelle e genitori superstiti ereditano in parti uguali (divisione per capi), ma ai genitori o anche a uno solo tocca almeno metà dell'eredità. Anche per i discendenti dei fratelli e sorelle vale il diritto di rappresentazione. Per esempio, due genitori e un fratello dividono l'eredità in tre parti uguali; un genitore e un fratello in due parti uguali; due genitori e due fratelli in quattro parti uguali; un genitore e due fratelli: metà al genitore, un quarto ai fratelli; due genitori e tre fratelli: un quarto ciascuno ai genitori, un sesto ciascuno ai fratelli. Al posto dei fratelli premorti subentrano i nipoti o loro discendenti (non per capi ma per stirpi nella parte che sarebbe toccata al fratello). Se per morte o rinuncia non ci sono i genitori ma i nonni o altri ascendenti, a loro tocca la parte che sarebbe toccata a un solo genitore (per cui se i nonni concorrono con un solo fratello, a quest'ultimo tocca metà dell'eredità, mentre se concorresse con i due genitori avrebbe solo un terzo). Un solo genitore vivente che accetta l'eredità esclude anche i nonni dell'altra linea (vale cioè il criterio generale che il grado prossimo esclude il più remoto). La divisione si fa tra ascendenti dello stesso grado, e per linee (metà alla linea materna e metà a quella paterna, risalendo ricorsivamente l'albero genealogico): per esempio, se ci sono un nonno paterno e due nonni materni, al primo tocca quanto agli altri messi insieme. Le stesse regole valgono per dividere la quota di un terzo che a genitori e/o ascendenti spetta in presenza del coniuge: in questo caso la quota minima degli ascendenti è un quarto, e quindi quella dei collaterali in presenza di ascendenti si riduce a un dodicesimo complessivamente. I fratelli unilaterali (cioè di padre o madre diversi) hanno la metà deifratelli germani. Per esempio, se il de cuius lascia il padre, la nonna materna, un fratello unilaterale, un fratello germano e due nipoti da un altro fratello germano premorto, il padre avrà metà dell'eredità, la nonna materna nulla, il fratello germano un quinto, il fratello unilaterale un decimo, i due nipoti un decimo ciascuno.
  6. altri parenti fino al sesto grado: qui vale la regola generale per cui i parenti di grado prossimo escludono quelli di grado più remoto, e non vale il diritto di rappresentazione. Pertanto, per esempio, i nipoti e anche i pronipoti (che per rappresentazione sono di secondo grado, anche se sarebbero di terzo o quarto) escludono gli zii (che sono di terzo); i cugini (che NON subentrano agli zii perché non vale la rappresentazione) sono esclusi dagli zii. Tra i parenti di pari grado la divisione si fa per capi senza divisione per linee: per esempio, se ci sono due zii materni e tre paterni, ognuno avrà un quinto dell'eredità. In pratica l'ordine di precedenza è il seguente:
  • prima gli zii (terzo grado);
  • poi i (primi) cugini e i prozii (quarto grado);
  • poi i figli dei cugini, i cugini dei genitori (cugini in seconda) e i fratelli dei bisnonni (quinto grado);
  • infine i nipoti abiatici dei cugini, i nipoti abiatici dei prozii (ovvero i secondi cugini), i cugini dei nonni e i fratelli dei bisnonni.dall'eredità legittima.
  • Se nessuno di questi parenti è vivente e non esiste un testamento, l'eredità è devoluta allo Stato. Si noti che gli affini sono sempre esclusi, sia i diretti (genero, nuora, suoceri) sia gli indiretti (cognati ecc.).
Il principio è valido, anche se incontra un importante limite nella disciplina della c.d. Successione necessaria, cioè nelle regole poste a tutela dei c.d. Legittimari.
I legittimari sono i soggetti ai quali spetta il diritto di ricevere una quota minima del patrimonio ereditario, denominata quota “di riserva” o “di legittima”. Si tratta dei soggetti legati dai rapporti familiari più stretti con il de cuius: il coniuge, i figli (e i loro discendenti, in mancanza dei figli), gli ascendenti (nel caso in cui non vi siano figli né altri discendenti).
In primo luogo, quando si parla di successione “necessaria”, non si afferma che il testatore non possa violarne le regole. Il testamento scritto da chi, pur avendo coniuge e figli, decidesse di destinare il suo intero patrimonio ad una fondazione, sarebbe pienamente valido ed efficace. Lo stesso vale per il testamento che, nella stessa ipotesi, contemplasse quale destinatario di disposizioni patrimoniali solo il coniuge, escludendo totalmente i figli (o viceversa).
Il testamento lesivo dei diritti riservati ai legittimari è pienamente valdio ed efficace, ma può essere impugnato dagli stessi legittimari al fine di renderlo parzialmente inefficace nei loro confronti (nella misura necessaria a ricostituire le quote ereditarie loro riservate).I legit timari potrebbero però decidere di rispettare le volontà testamentarie non esercitando alcuna azione a propria tutela
In secondo luogo, le regole della successione necessaria sono costruite in modo tale da lasciare in qualunque caso una quota del patrimonio liberamente disponibile da parte del testatore.
La somma delle quote complessivamente reclamabili da parte dei legittimari non copre mai la totalità del patrimonio (al massimo raggiunge i tre quarti dello stesso).
Al contrario, le regole della successione “per legge” sono dettate per disciplinare la devoluzione dell’intero patrimonio (il legislatore vuole che tutti i rapporti esistenti in capo ad un soggetto si trasmettano ad altri).
La disciplina testamentaria può comprendere tutto il patrimonio o parte di esso. A ben vedere, nessuno è in grado di conoscere con esattezza la intera composizione del patrimonio al momento in cui si verificherà il suo decesso (poiché il patrimonio di chiunque è continuamente soggetto a variazioni: si pensi alla maturazione di interessi su un deposito bancario o su un proprio debito).
Un esempio conclusivo chiarirà i rapporti tra successione per legge, successione testamentaria e successione necessaria. Il testatore, coniugato e con due figli, scrive: “istituisco erede mio figlio Tizio nella quota di due terzi del patrimonio”. Abbiamo un testamento che non “copre” la totalità del patrimonio, quindi nel caso concreto la devoluzione testamentaria concorrerà (per quanto attiene alla parte di patrimonio non contemplata) con la devoluzione legale. L’esito dell’applicazione delle due regole di devoluzione potrebbe poi essere “corretto” alla luce della disciplina della successione necessaria, qualora i legittimari lesi decidessero di agire a propria tutela. Infatti la legge riserva al coniuge un quarto del patrimonio e ai figli complessivamente la quota di un mezzo. Pertanto, sia il coniuge che il figlio non contemplato, parzialmente soddisfatti grazie alla devoluzione legale, avrebbero diritto di agire “in riduzione” contro il figlio istituito erede per rendere parzialmente inefficace nei loro confronti il testamento.
L’esito finale, qualora essi agiscano vittoriosamente (il che dipende anche da altre circostanze, per esempio dal fatto che essi abbiano o meno ricevuto donazioni in vita da parte del testatore), dovrebbe essere questo: al coniuge andrà un quarto del patrimonio, al figlio non citato nel testamento un quarto del patrimonio; la disposizione testamentaria a favore dell’altro figlio si “ridurrà” quantitativamente, dalla quota di due terzi alla quota di un mezzo del patrimonio (di cui un quarto quale quota riservata, e un quarto quale quota disponibile).

1 (Vedi Codice Civile, Libro Secondo, Titolo II: Delle successioni legittime, artt. 565-586)


Retratto successorio

 Retratto successorio è un istituto giuridico di diritto italiano, tipico della divisione ereditaria.
Non è applicabile in caso di divisione ordinaria.
La ratio del retratto successorio è quella di favorire, nel caso di alienazione di una quota di eredità, tra i possibili acquirenti uno dei coeredi. Ad esso l'ordinamento garantisce, non solo il diritto di prelazione sull'acquisto della quota alienanda, ma anche il diritto di riscattare la quota sostituendosi al terzo acquirente.
Il legislatore ha voluto quindi agevolare la permanenza della titolarità delle quote a persone aventi legami affettivi, concedendo loro il diritto potestativo di escludere il terzo, pagandogli il corrispettivo dallo stesso già versato per l'acquisto della proprietà della quota alienata da uno dei coeredi.
La ratio può essere individuata anche nell'interesse, riconosciuto dal legislatore, di agevolare la volontà testamentaria facendo in modo che i beni, ove possibile, rimangano nella proprietà di soggetti individuati dal de cuius.
Il retratto successorio è disciplinato dell'art. 732 del codice civile italiano il quale prevede che il coerede, se vuole alienare a un estraneo la sua quota ereditaria o parte di essa deve notificare la proposta di alienazione scritta, in caso di immobili, indicandone il prezzo, agli altri coeredi, che hanno diritto di prelazione da esercitare entro i due mesi successivi all'ultima delle notificazioni.
In mancanza di notificazione, nonché quando l'alienazione segua alla tempestiva comunicazione dei coeredi di volersi avvalere del diritto, costoro hanno diritto di riscattare la quota dell'acquirente e da ogni successivo avente causa, a prescindere dall'avvenuta trascrizione dell'acquisto.

Indegnità e diseredazione

 L'indegnità è un istituto che risale al diritto romano ed è giunto fino agli ordinamenti attuali: in base ad esso, coloro che hanno arrecato gravi offese (come l'omicidio) alla persona del de cuius o hanno gravemente leso la sua libertà di fare testamento, non possono essere suoi eredi o legatari. L'indegnità opera a prescindere dalla volontà del de cuius, in quando risponde ad un'esigenza di interesse pubblico, ripugnando alla coscienza sociale che possa succedere al defunto chi ha tenuto certi comportamenti nei sui confronti.
A differenza dell'indegnità, la diseredazione opera a seguito di una dichiarazione di volontà espressa dal de cuius nel testamento (cosiddetta disposizione negativa) ed esclude dalla possibilità di essere erede chi avrebbe altrimenti potuto esserlo in virtù della successione legittima. La diseredazione in senso stretto si distingue dalla preterizione, che si ha quando il testatore ha lasciato ad altri, ma nulla ad un soggetto che sarebbe stato suo erede in virtù della successione legittima.
Anche la diseredazione, come l'indegnità, risale al diritto romano, ma ha ricevuto diversa accoglienza negli ordinamenti attuali. Essa, infatti, non era stata recepita dal Code Napoléon e tutt'oggi alcuni ordinamenti che si rifanno a quel codice, come l'Italia e la Francia, l'ammettono solo nella misura in cui non priva i legittimari della quota loro riservata. La diseredazione è, invece, ammessa da altri ordinamenti di civil law (Spagna, Germania, Austria, Svizzera, Grecia ecc.) e dagli ordinamenti di common law, anche nei confronti di eventuali legittimari ricorrendo una giusta causa o gravi motivi.


Patti successori

 In vari ordinamenti è consentita la stipulazione di convenzioni, detti patti successori, con le quali una parte attribuisce all'altra la qualità di erede o legatario (cosiddetto patto successorio istitutivo) oppure si obbliga ad formulare il proprio testamento in un certo modo o a non revocare un testamento. In linea di massima, gli ordinamenti che si rifanno al Code Napoléon tendono a vietare i patti successori di ogni tipo, come nel caso dell'Italia, mentre altri ordinamenti di civil law hanno un atteggiamento di minore chiusura: ad esempio, il patto successorio istitutivo è ammesso in Austria, Svizzera e Germania (dove prende il nome di Erbvertrag, letteralmente “contratto ereditario”). Gli ordinamenti di common law non conoscono il patto successorio istitutivo, ma consentono il contract to make a will (contratto a fare un testamento) e il contract not to rewoke a will (contratto a non revocare un testamento).

Quota di riserva

 Nella maggior parte degli ordinamenti, con la notevole eccezione del Regno Unito (esclusa la Scozia) e di gran parte dei paesi del Commonwealth, la libertà di disporre con testamento del proprio patrimonio è limitata dall'esistenza di una quota di riserva, generalmente a favore del coniuge, dei discendenti e degli ascendenti: costoro (detti legittimari) hanno diritto ad una determinata quota del patrimonio del defunto (sistema della quota fissa, adottato, ad esempio, in Italia, Francia, Belgio, Norvegia, Spagna e Portogallo) o di quanto avrebbero ricevuto in caso di successione legittima (sistema della quota mobile, adottato, ad esempio, in Austria, Germania, Grecia, Paesi Bassi,Danimarca e Svizzera). Si parla, in questi casi, di successione necessaria. La parte del patrimonio del de cuius che non rientra nella quota di riserva prende il nome di quota disponibile.
In qualche ordinamento (ad esempio, Repubblica Ceca e Slovacchia) il mancato rispetto della riserva determina l'invalidità del testamento. In altri ordinamenti, invece, il testamento rimane valido, ma è data ai legittimari un'azione di riduzione, volta far valere un diritto reale sulla quota del patrimonio loro spettante; in alcuni di questi ordinamenti (ad esempio, Italia, Belgio, Francia e, fino al 2002, Paesi Bassi) l'azione può colpire retroattivamente anche i beni nel frattempo acquistati da terzi, mentre in altri (ad esempio, Grecia e Svizzera) ciò non è possibile. Infine, in un terzo gruppo di ordinamenti (tra cui Austria, Germania, Portogallo e, fino al 2002, Paesi Bassi), i legittimari hanno semplicemente un diritto di credito nei confronti degli eredi testamentari, che esclude la possibilità di azione nei confronti del terzo acquirente.

Diverso è anche l'atteggiamento degli ordinamenti circa la rinuncia alla quota di riserva da parte del legittimario, con il de cuius ancora in vita: tende ad essere esclusa dagli ordinamenti che si rifanno al Code Napoléon (è così, ad esempio, in Italia, Belgio e, fino al 2006, Francia), mentre è ammessa dagli ordinamenti che si rifanno alla codificazione germanica (Germania, Austria ecc., ma non la Grecia) e da quelli dei paesi nordici, nonché, a seguito di una riforma legislativa del 2006, dall'ordinamento francese.

martedì 21 gennaio 2014

La successione necessaria, legittima e testamentaria.

 Con il termine "successione necessaria" si indica il sistema di norme che regolano più che la successione di una determinata categoria di soggetti, la tutela di un nucleo minimo che il legislatore ha valutato dovere essere necessariamente riservata a favore di determinati familiari, a limitazione della autonomia del testatore.1
La natura della successione necessaria è particolarmente dibattuta in dottrina. Secondo un primo orientamento si tratterebbe di un tertium genus tra successione testamentaria e successione legittima. Un secondo orientamento ha proposto la tesi per cui la successione necessaria altro non sarebbe che un limite tanto per la successione necessaria che per quella legittima, nell'interesse dei prossimi congiunti del de cuius. Vi è poi una tesi intermedia secondo cui la successione dei legittimari costituisce una species del genus successione legittima, "potenziata" dal sistema di tutele che ne garantiscono l'effettività.
Secondo la teoria che si ritiene preferibile, la successione legittima e la successione necessaria devono considerarsi due specie dello stesso genere, perché entrambe di matrice legale e con l'obiettivo comune della tutela degli interessi della famiglia. Sussiste tuttavia una sensibile differenza di carattere oggettivo:La successione legittima ha per oggetto soltanto il relictum, mentre i diritti riservati ai legittimari si calcolano aggiungendo al relictum (sottratti i debiti e le passività) il donatum.
Mentre sotto la vigenza del vecchio codice si parlava solo di limitazione della delazione testamentaria, nel testo attualmente vigente tale limitazione non sembra più essere. Infatti, mentre l'art.457, III comma, cod.civ. sembra rifarsi alla vecchia impostazione stabilendo che "le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari", attualmente un preciso riferimento è contenuto nell'art.553 cod.civ. che estende la possibilità della lesione della legittima anche alla successione intestata.
Tale articolo pone un fondamentale principio: si stabilisce che "quando sui beni lasciati dal defunto si apre in tutto o in parte la successione legittima, nel concorso dei legittimari con altri successibili, le porzioni che spetterebbero a questi ultimi si riducono proporzionalmente nei limiti in cui è necessario per integrare la quota riservata ai legittimari".
Si ritiene dunque ammissibile un concorso tra i due tipi di successione e quando ciò si verifica si pone una regola di salvaguardia degli interessi del legittimario: al verificarsi della lesione, per effetto della chiamata dei successori legittimi, la vocazione legale del legittimario nella quota di riserva non avverrebbe automaticamente, ma soltanto previo esperimento vittorioso dell'azione di riduzione. Il legittimario pretermesso, pertanto, non potrebbe con la semplice accettazione diventare erede nella quota a lui riservata dalla legge. In altre parole, una volta esperita la riduzione dell'istituzione di erede lesiva della legittima, la vocazione legale nella quota di riserva diventerebbe operante non già in deroga, ma in applicazione del principio sancito dall'art.457, II comma, cod. civ. appunto perché nei confronti del legittimario si è creata una situazione equivalente alla mancanza in tutto o in parte della successione testamentaria.2
All'atto pratico risulta tuttavia difficile ipotizzare un contrasto tra gli esiti derivanti da norma giuridiche tale da rendere indispensabile l'esperimento di un'azione giudiziaria: parrebbe più sensato ipotizzare un automatico adeguamento delle disposizioni ab intestato agli esiti applicativi delle regole proprie della successione necessaria.
La quota del legittimario che faccia valere tale qualità, quindi, si determina non nella misura minore che risulterebbe dall'applicazione delle norme generali sul concorso nella successione intestata, bensì nella misura maggiore risultante dal calcolo della quota di riserva. Le norme sulla riserva ereditaria costituiscono un limite all'applicazione delle regole generali sul riparto dell'eredità ab intestato, sostituendosi a queste come fonte della disciplina del concorso del legittimario con successibili non legittimari, mentre la causa della vocazione ereditaria consiste pur sempre, anche per il primo, nella mancanza della successione testamentaria. In altre parole, il diritto ab intestato dei successibili non legittimari non può essere compresso oltre la misura occorrente per integrare la quota riservata ai legittimari. Scendendo dal piano dei principi a quello delle applicazioni pratiche, un caso che sovente è venuto all'attenzione degli interpreti è quello della coincidenza della vocazione testamentaria col contenuto della successione necessaria.
In tale ipotesi si discute se si apra la successione testamentaria oppure questa, in sostanza inutile, risulti assorbita dalla successione legittima.
La questione è in gran parte simile a quella già esaminata in caso di chiamata testamentaria in quote esattamente corrispondenti a quelle previste per il caso di successione intestata, secondo un richiamo che può avere, come visto, una rilevanza diversificata. La stessa natura della riserva, come visto, si ritiene riconducibile nell'ampio alveo della regolamentazione legale del fenomeno successorio e come tale ne subisce le medesime conseguenze ed i medesimi effetti.
L'unica particolarità è rappresentata dal fatto che mentre la successione legittima si presenta come direttamente applicabile in caso di mancanza, parziale o totale, di quella testamentaria, la successione necessaria rappresenta un limite all'applicazione di quest'ultima, come detto, e non è destinata ad avere una immediata rilevanza, almeno fino al momento in cui il legittimario, esperendo vittoriosamente l'azione di riduzione, non abbia titolo per reclamarla.
Il rapporto tra successione legittima e successione testamentaria rappresenta una delle questioni più dibattute in materia di diritto successorio. Il sistema è costruito in modo da privilegiare in maniera assoluta l'autonomia negoziale del de cuius, in modo da consentirgli di disporre delle sue sostanze senza che la valutazione legale possa, almeno in prima battuta, sovrapporvisi. La differenza sostanziale tra i due titoli sta nel fatto che mentre nella successione legittima la vocazione è astrattamente precostituita dalla legge con riferimento a determinate categorie di successibili, nella successione testamentaria invece il testamento è esso stesso la fonte della vocazione, non avendo soltanto la funzione di designarne i beneficiari.
In realtà, pur partendo dal dato rappresentato dall'argomento letterale onde cui la successione legittima si apre e viene ad operare soltanto in caso di mancanza (totale o parziale) di quella testamentaria, approfondendo la questione ben si può rilevare come il fenomeno successorio sia in gran parte dominato dalle regole legali. Al testatore compete unicamente la libertà (neppure assoluta, stante i principi della successione "necessaria") di individuare i successori, in nessun caso le regole di trasmissione del patrimonio e le modalità con cui la successione viene ad operare.
La successione testamentaria non si presenta pertanto come negatrice dell'applicazione della successione legittima, potendo coesistere con essa. Ciò pur tenuto conto di un fondamentale limite: la vocazione rimane in tal caso unica, non richiedendosi accettazioni distinte nè essendo possibile esprimere una rinunzia riferibile ad uno dei titoli della vocazione. La successione nell' universum ius è unica e come tale non ammette che possa disciplinarsi in maniera difforme o che ne sia consentita una accettazione parziale. La successione legittima supplisce alla mancanza di una compiuta espressione di volontà da parte del testatore, non cerca però di riprodurne i presumibili contenuti, operando anche nei casi in cui una volontà non si sia mai manifestata o non possa comunque manifestarsi. In questo senso risulta infondata la prospettiva che, come visto, cerca di cogliere l'essenza della successione legittima nell'espressione di una presumibile volontà del testatore. Piuttosto essa va considerata come la manifestazione di una esigenza di carattere sistematico, la scelta di una destinazione al patrimonio relitto che ne assicuri continuità. Il gruppo familiare rappresenta, da questo punto di vista, la scelta fatta dall'ordinamento per tale fine, certamente anche partendo dall'osservazione della normalità della trasmissione della ricchezza nell'ambito familiare.3

1 Sulla successione necessaria in generale si vedano, tra le numerose opere di carattere generale, Cannizzo,Successione necessaria e successione legittima, in Il diritto privato nella giurisprudenza a cura di Cendon, vol. II, Torino, 2000;Nappa, La successione necessaria, Padova, 1999; Buccelli, I legittimari, Milano, 2002.
2 Così Cannizzo, op.cit., p.142
3E' stato acutamente osservato che la qualifica di successione legittima non ha un significato puramente negativo, come viceversa potrebbe apparire da un approccio esclusivamente letterale alla norma. In altre parole, il termine " successione legittima " non sarebbe solo indicativo del fatto che il titolo della vocazione è formato da fatti diversi da una disposizione testamentaria, ma avrebbe una precisa connotazione positiva.



Il sistema successorio mortis causa: successione testamentaria e autonomia testamentaria.

 In tema di disposizioni testamentarie, la successione mortis causa può avvenire a titolo universale (attribuendo la qualità di erede) oppure a titolo particolare (attribuendo la qualità di legatario), a’ sensi dell’art. 588 Codice Civile. Naturalmente, disposizione testamentaria: lo strumento tecnico è quello della condizione risolutiva prevista dall’art. 638 codice civile. Del pari, è previsto che, in caso di inadempimento dell’onere, l’autorità giudiziaria possa pronunziare la risoluzione della disposizione testamentaria, se la risoluzione è stata prevista dal testatore oppure se l’adempimento dell’onere ha costituito il solo motivo determinante della disposizione (art. 648 cod. civ.).
Utile o opportuna è la designazione di un esecutore testamentario.
Non si può escludere la previsione di una disposizione di compromettere in arbitri. Fermo il forte dubbio sulla liceità dell’imposizione di un dato arbitro da parte del testatore e fermo che la disposizione non potrebbe gravare sui diritti dei legittimarî giusta la previsione dell’art. 549 cod. civ. (con la conseguenza che solo per la quota disponibile potranno essere tenuti al rispetto della previsione testamentaria), si può discutere se il potere di autonomia testamentaria sia idoneo a sottrarre alla giurisdizione ordinaria la soluzione della controversia che si lega alla successione per testamento a favore dell’arbitro.
Tecnicamente tale volontà del testatore potrebbe essere racchiusa in una condizione dell’istituzione testamentaria non illecita ex art. 634 cod. civ., che potrebbe addirittura essere vantaggiosa per i successori e comunque non pregiudizievole dei loro diritti. La qualificazione giuridica della previsione della soluzione arbitrale delle controversie successorie potrebbe qualificarsi in termini di legato di contratto oppure di modus. Come esattamente osservato, questa seconda qualificazione sarebbe da preferire, avendo a mente la funzione perseguita, ossia il perseguimento di un interesse del testatore: sullo sfondo rimane il dibattito se, accanto all’istituzione di erede e legato, possa riconoscersi un ulteriore meccanismo successorio, intendendo, in particolare, il modus non come elemento accidentale ed accessorio, ma autonomo.
Sul piano pratico la differenza tra erede e legato non è sempre chiara e netta, in quanto la definizione legislativa (l’art. 588 cod. civ.), usando il metodo meontologico, qualifica in negativo le disposizioni a titolo particolare come tutte le altre disposizioni che non siano quelle a titolo universale, ossia quelle che, qualunque sia l’espressione o la denominazione usata dal legislatore, non comprendono l’universalità o anche solo una quota dei beni del testatore.
È affermazione ricorrente che, mentre l’erede succede nell’universum ius, il legatario succede a titolo particolare in uno o più dati diritti reali o in uno o più rapporti determinati anche se rappresentino la parte cospicua del patrimonio ereditario invero tale ultima concezione deve essere
specificata, in quanto descrive solo una parte, sia pure normale, del fenomeno successorio del legatario).
Tuttavia, il capoverso dell’art. 588 cod. civ. specifica che l’indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio. Si tratta di quella che viene usualmente chiamata institutio ex re certa: il testatore non determina direttamente la quota del beneficiario, ma questa è indirettamente determinabile in rapporto al valore dei singoli beni rispetto all’intero patrimonio ereditario; il testatore, avendo presente l’intero suo patrimonio, ha
assegnato singoli beni intendendoli come quota dell’intero, il che implica una vera e propria istituzione di erede.
Non si tratta di una contraddizione tra il comma 1 dell’art. 588 (che farebbe riferimento ad un criterio distintivo di natura meramente obiettiva, quale la totalità dei beni del testatore o una quota di essi, per quanto riguarda l’erede, e i rapporti determinati, per quanto riguarda il legatario) e il comma 2 del medesimo articolo (che introduce un elemento soggettivo, quale la volontà del testatore): anche l’institutio ex re certa costituisce una concreta modalità di attuare la vocazione a titolo universale, in quanto il testatore provvede a concretizzare la quota spettante all’erede con il riferimento ai beni determinati e quindi a realizzare una funzione di apporzionamento” dell’istituito. Il momento istitutivo e quello divisorio sono racchiusi nell’unica assegnazione, senza che l’apporzionamento venga disposto dopo una preventiva chiamata in quote astratte cui segue una disposizione in funzione meramente distributiva, diversamente che nell’istituto della divisione ereditaria.1
Consegue che la distinzione non risiede in criterî di natura obiettivocontenutistica, ma si fonda, in ultima analisi, sull’elemento soggettivo della volontà del testatore.
Si tenga presente che non è richiesto l’impiego di formule rigide per l’attribuzione formale del titolo di erede (ad esempio, le espressioni “nomino” o “istituisco erede …”), ben potendo il testatore esprimersi liberamente (ad esempio, “lascio i miei beni a ...”).
D’altra parte, l’utilizzo di certe espressioni non è vincolante per l’interprete, per cui il designato, pur chiamato “erede” dal testatore, può essere qualificato, invece, come legatario.
Occorre specificare che il concetto di universalità non deve essere inteso nel significato tradizionale, ossia come complesso di beni costituito in unità (la c.d. universitas), bensì come totalità del patrimonio del de cuius: così si ha contezza della ragione in forza della quale la caratteristica della figura di erede risiede nella universalità del titolo di acquisto, ossia di titolo astrattamente idoneo a far acquistare tutti i beni dei quali il testatore non abbia altrimenti disposto.
Nel legato manca tale capacità di estensione ad altri beni che non siano quelli concretamente indicati dal testatore.
In concreto, tuttavia, può rimanere il problema di distinguere se la disposizione testamentaria sia a titolo universale o a titolo particolare. Si pensi alla disposizione dell’unico bene del de cuius o del bene di rilevantissimo valore.
Come anticipato, il criterio distintivo è affidato, nella non vincolatività delle espressioni utilizzate dal testatore (art. 588 cod. civ.), all’interpretazione della volontà contenuta nel testamento. Il criterio fondamentale è solo la reale volontà del testatore2.
Ciò potrebbe risultare tautologico o privo di utilità pratica per l’interprete, in quanto non si abbia a riferimento la funzione propria delle disposizioni a titolo universale e a titolo particolare, funzione che deve guidare la ricerca della reale volontà del testatore.
Infatti, la differenza tra erede e legatario non è meramente quantitativa, ma più pregnante e riguarda la qualità e la natura stessa della disposizione. La differenza risiede nella diversità funzionale delle due disposizioni: come visto supra nel paragrafo 1, il subingresso di un erede al de cuius risponde primariamente (ma non solo) all’esigenza obiettiva di interesse generale che vi sia un soggetto che assicuri la sistemazione e la continuazione dei rapporti giuridici che non si sono estinti con la morte del titolare; al contrario, la previsione del subingresso del legatario in un diritto specificamente determinato assicura, di regola, il soddisfacimento non di un’esigenza obiettiva di interesse generale, ma il soddisfacimento di un’esigenza soggettiva del de cuius di attribuire un certo vantaggio con effetto post mortem ad un certo soggetto3.
Il legato svolge una funzione che non è quella di dare al defunto un successore alla sua posizione giuridica oggettivamente immutata, ma di favorire una persona o successione, un immobile al figlio, configurandosi disposizione di erede, non di legato, se lo stesso cespite sia parte rilevantissima dell'eredità, costituita anche da terreni (Corte d’App. Trento, 19 dicembre 1998, in Nuovo dir., 1999, 849).
La successione dell’erede risponde a necessità oggettive e di rilevanza generale che trascende gli interessi privati, ossia impedire la vacanza di titolarità di quei rapporti che non si estinguono con la morte del titolare, quindi garantire la certezza dei rapporti giuridici e la pace sociale. Nel legato sfuma questa dimensione pubblicistica che connota l’istituzione di erede, per lasciare spazio alla volontà del testatore e all’autonomia privata, di disporre dei proprî beni, di imporre obblighi e di costituire diritti in modo ampio.
Sul piano fenomenologico fa rispondenza a questa considerazione il fatto che l’istituzione ereditaria è caratterizzata dal subentro soggettivo in un patrimonio che rimane staticamente fermo; nel legato, invece, prevale il momento attributivo. Riprova né è il fatto che il legato può aver ad oggetto un bene altrui; che può essere meramente liberatorio; che il rapporto con il creditore ipotecario è assimilabile a quello dell’acquirente per atto tra vivi. Si pensi ancora alla differente ripartizione dei “pesi” tra legatario ed erede ai sensi dell’art. 668 cod. civ.: gli oneri inerenti il fondo rimangano a carico del primo, mentre i debiti rimangono in capo all’erede.
Se determinante è la volontà del testatore, la quaestio voluntatis non può risolversi nella ricerca dei cangianti ed innumerevoli moti interiori del disponente. Al contrario, sulla base del dato positivo e del coordinamento delle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 588 cod. civ., l’elemento soggettivo si configura come intenzione (o almeno consapevolezza) di assegnare beni determinati come “quota” del patrimonio, ossia in un’ottica di “rapporto” tra una parte ed il tutto, di tal ché si risolve nel concepire la certa res come rappresentativa di una frazione dell’intero asse4.
Come esattamente osservato, “come in tutti gli atti di autonomia, anche nel testamento l’autore dell’atto ha di mira un risultato pratico, ed è la legge che collega atale volontà effetti giuridici corrispondenti”.
In punto di fatto, l’indagine sarà condotta sulla scorta non tanto del “valore” del patrimonio, ma della rappresentazione che di esso aveva il testatore, in vista dell’interesse ad assegnare i beni secondo criterî di opportunità (desunti dalla loro natura, destinazione, rapporto di parentela, convivenza, etc.), nonchè di conformità della disposizione agli effetti tipici della chiamata ereditaria rispetto alle passività. La volontà del testatore deve essere intesa come volontà di assegnare ad una certa persona una parte del proprio patrimonio che aveva idealmente diviso, considerandola quindi come uno dei suoi successori come tale obbligato al pagamento dei debiti ereditarî oppure come volontà di assegnare singoli beni (da ricevere dagli eredi) senza intenzione di imporre l’obbligo del pagamento dei debiti ereditarî, attribuendo un legato.



1 BALDISSERUTTO G. - BELLONI PERESUTTI G.P. – GIACOMELLI U. - MAGAGNA M. –
VINCENTI U.- ZANON U., op. cit., pag. 11-12.
32 AMADIO, op. cit., pag. 16; MENGONI L., La divisione testamentaria, Milano, 1950, pagg. 3 e ss.;TATARANO, op. cit., pag. 363-364, che rileva come i due istituti (divisione testamentaria ed institutio ex re certa) non coincidono, essendo diverso il procedimento attraverso cui si realizza il programma del testatore. Nella divisone il procedimento è deduttivo, in quanto il disponente prima enuncia le quote in astratto e poi le soddisfa in porzioni. Nell’institutio ex re certa il procedimento induttivo, poiché il testatore attribuisce beni determinati, che risultano all’interprete intesi come quota nella rappresentazione mentale del testatore. Senza considerare il profilo della vis espansiva in relazione ad eventuali beni non considerati dal testatore, come regolato dall’art. 734 comma 2 cod. civ., in forza del quale se nella divisione effettuata dal testatore non sono compresi tutti i beni lasciati al tempo della morte, è da ritenersi che gli stessi spettino all’erede legittimo ove non risulti una diversa volontà del testatore, in considerazione della funzione satisfattoria della res materiale assegnata. Nel caso di disposizione ex re certa, invero, la sorte dei beni non menzionati non è pacifica, ma è da ritenere che l’idea di quota porti con sé la necessaria vis espansiva. Amplius, BONILINI, Institutio cit., pagg. 239 e ss.].MESSINEO, op. cit., pag. 24 BONILINI, Concetto cit., pagg. 13-14. Se il lessico adoperato dal testatore non può ritenersi decisivo, un qualche spazio potrebbe, tuttavia, sussistere, ove si accerti la perfetta padronanza dei termini giuridici da parte del testatore: BONILINI G. – BASINI G.F., I legati, in Tratt. di dir. civ. del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingeri, v. VIII, t. 6, Napoli, 2003, pag. 27; GIORDANO – MONDELLO, voce Legato (dir. priv.), in Enc. Dir., XXIII, Milano, 1973, pag. 729; CARAMAZZA, op. cit., pagg. 25-26.
2 Nozioni cit., pag. 7; BALDISSERUTTO G. - BELLONI PERESUTTI G.P. – GIACOMELLI U. - MAGAGNA M. – VINCENTI U.- ZANON U., op. cit., pag. 12.
3 BONILINI, Nozioni cit., pag. 7; ID., Concetto cit., pag. 15; BARBERO, op. cit., pagg. 859-860;GIORDANO – MONDELLO, op. cit., pag. 722; TATARANO, op. cit., , pag. 3.

4 AMADIO, op. cit., pag. 22; TATARANO, op. cit., pag. 359-361, 362 e ss.]. In giurisprudenza, Cass. sez. II, 6 novembre 1986 n. 6516, in Giust. Civ. mass., 1986, f. 11. Cass. sez. II, 1 marzo 2002 n. 3016, in Giust. Civ. mass., 2002, 365, secondo cui in materia di distinzione tra erede e legatario, l'assegnazione di beni determinati deve interpretarsi, ai sensi dell'art. 588 c.c., come disposizione ereditaria (institutio ex re certa), qualora il testatore abbia inteso chiamare l'istituito nell'universalità dei beni o in una parte indeterminata di essi, considerata in funzione di quota del patrimonio relitto, mentre deve interpretarsi come legato, se abbia voluto attribuirgli singoli individuati beni. L'indagine diretta ad accertare se ricorra l'una o l'altra ipotesi, si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato ai giudici del merito, ed è, quindi, incensurabile in sede di legittimità se conseguentemente motivato. 

Principi del sistema successorio a causa di morte. Proprietà, persona e libertà nel sistema giuridico italiano e nella dimensione europea.

 Un problema che ha da sempre attanagliato l’uomo è quello della morte, in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue implicazioni. Di fronte a tale fatto o momento (ineluttabile) l’uomo di ogni tempo ha cercato di sondare ciò che non era noto, alla ricerca di risposte, dando vita a profonde discussioni non solo teologiche, ma in senso più ampio filosofiche, involgendo l’esistenza e l’essenza dell’essere umano.
Rispetto a tali dimensioni e problematiche il Diritto è quasi estraneo, ma non indifferente.
Disse quel filosofo: dunque il male che più ci fa rabbrividire, cioè la morte, è nulla per noi, dal momento che quando noi viviamo la morte non c’è, quando invece c’è la morte, allora non siamo più noi. Dunque la morte non ci riguarda, né quando siamo vivi, né quando siamo morti, perché per i vivi essa non c’è, i morti, invece, non sono più1.
Se tale impostazione edonista può apparire, in un primo momento, un porto rassicurante per l’inquietudine esistenziale, non è altrettanto soddisfacente per il sistema economico-sociale-giuridico. Il momento della dipartita produce conseguenze nel mondo-comunità, che, invece, continua ad esistere, operare ed interagire. Dal mero punto di vista patrimoniale-economico, i diritti e gli obblighi, che fanno capo ad un soggetto, possono, di regola, sopravvivere al titolare e vi è la necessità di regolarli.
In tal senso, il Diritto si preoccupa di ordinare aspetti dell’evento morte, solo ad una prima analisi, più “triviali”, legati alla sistemazione del patrimonio del defunto.
In realtà, tali aspetti sono densi di significato, perché possono involgere non solo la sistemazione di interessi meramente economici, ma direttrici fondamentali come la famiglia, la proprietà privata, la libertà individuale.
Gli interessi privatistici-individuali sono intrecciati con gli interessi generali di certezza e di continuità dei traffici economici. Il loro bilanciamento dipende da precise impostazioni sociali, politiche e culturali.
Nonostante la morte della persona fisica, alcuni rapporti, soprattutto quelli a carattere patrimoniale, permangono e in linea teorica, con riguardo alla loro sorte, sono ipotizzabili almeno tre diverse soluzioni:
1) alla morte del soggetto lo Stato raccoglie il contenuto di questi rapporti, o
2) i beni che ne formano oggetto diventano res nullius, oppure
3) i rapporti stessi sono trasmessi ad altro soggetto, che ne diventa titolare nella stessa posizione del defunto.
Delle tre soluzioni, l’ordinamento italiano ha accolto l’ultima: l’istituto della successione rimane congegnata come manifestazione del diritto di proprietà, escludendo l’attribuzione alla collettività dei rapporti vacanti a seguito della morte del loro titolare, se non in ipotesi estrema e residuale2.
La possibilità che il patrimonio venga trasferito ad altri soggetti, magari della cerchia famigliare (piuttosto che divenire res nullius o essere acquisito dallo Stato), dovrebbe essere di stimolo e di incentivo per lo sviluppo e l’incremento del patrimonio stesso, a vantaggio non solo del singolo, ma, in un’ottica di più ampio respiro, dell’intera comunità economico-sociale fino allo Stato3.
Nel nostro ordinamento l’art. 47 Cost. sancisce che la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme, scopo tradito se si ammettesse la perdita o la dispersione del patrimonio a seguito dell’evento morte, non essendo tutto ciò di stimolo alla conservazione e all’incremento della ricchezza.
È così rintracciabile l’esigenza sociale di conservazione e continuazione dei rapporti giuridici, assicurando dunque le legittime posizioni dei creditori e più in generale di evitare non solo una verosimile distruzione o immobilismo di ricchezza (una sorta di “mano morta”), ma anche il disordine nei rapporti giuridici (se il patrimonio andasse disperso divenendo res nullius), riconoscendo meritevole di tutela anche l’autonomia privata del disponente. Uno degli scopi fondamentali della Legge è assicurare la certezza dei rapporti giuridici e la loro ordinata disciplina, quindi la pace sociale tra i consociati4.
Invero, poi, il Diritto non è completamente indifferente ad aspetti che trascendono il campo economico-sociale, per afferire ad aspetti più “umani”, espressione di una pietas che esula da considerazioni patrimonialistiche.
Il Legislatore assicura e tutela la volontà del de cuius circa la destinazione delle proprie spoglie mortali. Si pensi ai principî fissati dall’art. 3 della L. 30 marzo 2001 n. 130 sulle Disposizioni in tema di cremazione e dispersione delle ceneri.
A livello penale, il Legislatore ha previsto i delitti contro la pietà dei defunti agli artt. 407-413 cod. pen. (violazione di sepolcro, violazione delle tombe, turbamento di un funerale o servizio funebre, vilipendio di cadavere, distruzione, soppressione o sottrazione di cadavere, occultamento di cadavere, uso illegittimo di cadavere), peraltro procedibili d’ufficio. In tali casi, non è riscontrabile un interesse privato sulle proprie spoglie (di un soggetto che ormai non c’è più), ma sembra rilevare la pietas che involge l’entità che rivestì la persona5.
Nell'ordinamento italiano la disciplina della successione a causa di morte è contenuta essenzialmente nel Codice civile, che dedica all'istituto il Libro II (rubricato "Delle successioni"). Alla disposizioni generali, contenute nel Titolo I, seguono la disciplina della successione legittima (Titolo II) e della successione testamentaria (Titolo III), mentre gli ultimi due titoli trattano della divisione e delle donazioni.
Non si può sottacere, poi, che nel nostro ordinamento il testamento, per quanto rappresenti il veicolo principe per disporre delle proprie sostanze per il tempo successivo alla propria morte, non lo si può immiserire a tale visione, essendo consentito regolare una pluralità di interessi a carattere non patrimoniale.
Come noto, il testamento è un negozio giuridico unilaterale non recettizio, formale, revocabile, personale, unipersonale, a titolo gratuito e tendenzialmente patrimoniale. Ai sensi dell’art. 587 cod. civ., è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse.
Aggiunge il capoverso che le disposizioni di carattere patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento, hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale.
Emerge, così, il carattere della tendenziale patrimonialità del negozio mortis causa.
Proprio il riconoscimento della volontà concernente non solo i beni, ma anche interessi non patrimoniali, induce a ritenere (anche se non in modo pacifico) che l’accezione di testamento, accolta dal legislatore, non sia solo il concetto ristretto (espressione della volontà dispositiva dei beni, comma 1, art. 587), ma anche quello ampio (possibilità di racchiudere disposizioni di ultima volontà che possono anche non ripercuotersi sui beni): testamento come nozione unitaria di negozio volto a regolare una pluralità di interessi, patrimoniali e non, post mortem6.
Circa l’importanza di tali disposizioni non patrimoniali, si pensi alle disposizioni sulla propria sepoltura, al riconoscimento di figlio naturale (art. 254 cod. civ.), alla dichiarazione di volontà di legittimare un figlio naturale (art. 254 comma 2 e art 285 comma 1 cod. civ.), alla designazione del tutore del protutore (artt. 348 comma 1, 355 e 345 comma 1 cod. civ.) o del tutore dell’interdicendo e del curatore dell’inabilitando (artt. 424 comma 3 cod. civ.), alla dichiarazione di riabilitazione dell’indegno (art. 466 comma 1 cod. civ.), piuttosto che alla confessione (art. 2735 cod. civ.), per non parlare delle decisioni sul diritto morale di autore, delle sorti della corrispondenza e di altri scritti di carattere personale e confidenziale del defunto.
Quale strumento di attuazione e di valorizzazione di interessi variegati post mortem, il testamento costituisce un istituto socialmente rilevante, ove il legame volontà-sentimento dell’uomo è quanto mai presente, forte e rilevante7.
Nel sistema codicistico la successione è un modo di acquisto (a titolo derivativo) della proprietà (art. 922 cod. civ.), coerentemente col concetto di diritto di godere e disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo (art. 832 cod. civ.).
A livello Costituzionale l’art. 42 co. 4 Cost. demanda al legislatore ordinario la regolamentazione della successione legittima e di quella testamentaria: si profila, così, l’istituto della successione per causa di morte, istituto che, da un lato, presuppone l’altro istituto della proprietà e, dall’altro, si ricollega all’istituto familiare, nonchè al rispetto dell’ultima volontà del defunto, sullo sfondo rimanendo la particolare e residuale ipotesi della successione dello Stato8.
Infatti, ammesse la proprietà privata, la trasmissione ereditaria e la libertà testamentaria, quest’ultima non è assoluta, essendo contemperata dal principio della successione familiare, prevista e disciplinata dal Legislatore ordinario. Il solidarismo familiare impone di riservare una parte del patrimonio ai congiunti più stretti (con imputazione di quanto ricevuto dal de cuius in vita per donazione).
Anche la successione legittima mira a destinare la ricchezza a favore della cerchia famigliare, coniuge e parenti prossimi. Ancora a titolo esemplificativo, si pensi alla revocazione di diritto del testamento per sopravvenienza di figli (art. 687 cod. ci.) oppure all’assegno spettante ai figli naturali non riconoscibili (artt. 580 e 594 cod. civ.).
La molteplicità degli interessi sottostanti il diritto ereditario ripropone la dialettica tra libertà e norma9.
Il delicato bilanciamento di tutti gli interessi finora esposti (peraltro, convergenti ed armonizzati) entra, forse, in una nuova dimensione in seno all’Unione Europea, quasi di evoluzione dall’ottica patrimoniale-individuale, passando per la visione sociale del fenomeno successorio.
A livello europeo, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea di Nizza del 2000 all’art. 17 sul diritto di proprietà e sotto il Titolo dedicato alle Libertà espressamente afferma che ogni individuo ha il diritto di godere dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Dunque, pare affermato un nuovo collegamento tra proprietà e libertà, un’idea di proprietà quale espressione di libertà, frutto di un percorso evolutivo europeo, di innovazione rispetto al secolo precedente e al concetto di diritto sociale.
Il nuovo collegamento tra proprietà e libertà, affermato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, è l’evoluzione di un principio già in nuce non tanto nella CEDU (del 4 novembre 1950, ratificata in Italia con L. 4 agosto 1955 n. 842 ora “comunitarizzata” dal Trattato di Lisbona ex artt. 6 e 47), la quale si limita a riconoscere il diritto alla libertà e alla sicurezza, i diritti di libertà individuale e collettiva senza menzionare espressamente il diritto di proprietà, quanto nel primo Protocollo aggiuntivo del 20 marzo 1952 art. 1, ove si legge ogni persona fisica o morale ha diritto pieno al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà salvo che per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto intenzionale.
Qui l’ottica era nel rapporto proprietà-libertà, quindi come limite all’espropriazione.
Nella Carta di Nizza si sviluppa l’idea di proprietà espressione di libertà. Non si tratta di un ritorno ad un’idea liberal-ottocentesca di proprietà come libertà. Non si tratta di fondamentalizzare i diritti soggettivi, rendendoli tutti fondamentali (così annacquandoli), ma di bilanciarli. Oggi la proprietà nel diritto europeo non è libertà, ma strumento di libertà, da bilanciare con altri diritti fondamentali (non a caso una norma rilevante a tal fine è il divieto di abuso di diritto sancito dall’art. 54 della Carta).
Di regola, tornando all’argomento principale, si trasmettono i soli diritti patrimoniali. A questi, poi, fanno eccezione alcuni diritti patrimoniali intrasmissibili (ad esempio i diritti reali di uso o abitazione legati alla vita del titolare; i rapporti intuitus personae come il contratto di mandato, di lavoro subordinato e d’opera; i rapporti patrimoniali legati allo status famigliare, come il diritto agli alimenti)10.
Vi sono, poi, posizioni attive che si estinguono con la morte del loro titolare, come i diritti della personalità e i rapporti e gli stati famigliari11.
Cosa diversa è che l’erede o il successore particolare acquistino diritti a titolo originario, che non esistevano nel patrimonio del defunto. Si tratta di quei diritti originari che nascono per la prima volta in capo all’erede in quanto tale e che, quindi, non trovano nella morte del de cuius la causa dell’acquisto, ma solo il momento del loro venire ad esistenza (si pensi a quanto venga acquistato iure proprio, in base ad un contratto condizionato alla morte di una persona)12.
L’erede acquista, inoltre, alcuni diritti a titolo originario che non esistevano nel patrimonio del defunto: pensiamo al diritto di acquistare l’eredità, o a rinunziarvi; al diritto a richiedere la riduzione, se legittimari; al diritto di rappresentazione o di accrescimento. Per non tacere, poi, degli obblighi che nascono ex novo (ad esempio, i diritti – legati ex lege – spettanti ai figli naturali non riconosciuti, ex artt. 580 e 594 cod. civ.).
Diversa è l’ipotesi di continuazione in un diritto: tale è il caso del possesso, in cui il successore non subentra al de cuius, ma ne continua solo l’esercizio (art. 1146 cod. civ.). In questa ipotesi, tuttavia, si hanno sempre due possessi.
Da quanto detto si può concludere che funzione pratica della successione è di provvedere alla sorte del patrimonio che permane, nonostante la morte del suo titolare.
Dal punto di vista giuridico, invece, essa si riallaccia alla figura della successione in generale, importando il subentro di un determinato soggetto in uno o più rapporti che restano oggettivamente immutati13.
L’immutabilità oggettiva dei rapporti che si trasmettono mortis causa può dirsi fenomeno pacifico nella dottrina14, solo una voce si è levata contro in quanto un valente Autore15 ha affermato che l’erede acquisterebbe rapporti nuovi, pur se d’identico (azioni contrattuali di adempimento, risoluzione e rescissione, azione di risarcimento del danno, azione a difesa dei diritti reali etc.), e dall’altra, una tutela nuova, nel senso che non spettava al defunto (l’azione di riduzione contro la lesione di legittima, l’accettazione con beneficio d’inventario, l’azione di collazione, l’azione di divisione e la petizione d’eredità, che rappresenta la sua più rilevante tutela).
Quanto, poi, ai legittimarî, il codice prevede una tutela specifica, denominandola “della reintegrazione della quota riservata ai legittimari” o azione di riduzione.
Questa teoria, tuttavia, non è accettabile: a parte, infatti, la considerazione che non ve n’è traccia nella legge, ove si ammettesse una trasformazione nei rapporti stessi, dovrebbe anche ammettersi il venir meno delle garanzie ad essi inerenti (arg. ex art. 1275), il che, almeno secondo il nostro ordinamento, è inconcepibile.
Cosa diversa è l’acquisto di diritti a titolo originario, che non esistevano nel patrimonio del de cuius, cui si è accennato poco sopra.
Da quanto detto si può affermare che la morte non è solo quell’evento naturale a cui si ricollega l’apertura della successione, ma è il fatto giuridico, il titolo cui si ricollega la successione stessa.
1 EPICURO, Lettere e massime, traduzione di A. Carretta e L. Samarati, Editrice La Scuola, Brescia.
2 NICOLÒ R., voce Erede (dir. priv.), in Enc. Dir., XV, Milano, 1966, pag. 196; De CUPIS A., voce Successione ereditaria (dir. priv.), in Enc. Dir., XLIII, Milano, 1990, pag. 1258.
3 KOZIOL-WELSER, Bürgerliches Recht, Band II: Schuldrecht Allgemeiner Teil, Schuldrecht Besonder Teil, Erbrecht, 13. Auflage, Manz, Wien, 2007, pag. 441 e ss.].
4 NATALE A., Autonomia privata e diritto ereditario, Padova, 2009, pagg. 4 e ss.; BONILINI G., Nozioni di diritto ereditario, Torino, 1993, pag. 16-17; NICOLÒ, Erede cit., pag. 196; De CUPIS,Successione cit., pag. 1258; TATARANO M.C., Il testamento, v. VIII, t. 4, in Trattato di diritto civile delConsiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingeri, Napoli, 2003, pagg. 2-4, nonché pagg. 13-16.
5 TRABUCCHI A., Istituzioni di diritto civile, Padova, 2004, pag. 271.
6 BONILINI, Nozioni di diritto ereditario, 2ª ed., Torino, 1993, 87-98. Quanto al concetto ampio di testamento, che può raccogliere disposizioni di ultima volontà dispositive e meno dei beni, non è questa la sede per affrontare lo specifico problema. Siano consentiti i primi riferimenti: MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, Milano, 1962, pagg. 96 e ss.; BONILINI, Nozioni cit., pagg. 87-98; TRABUCCHI, Istituzioni cit., pag. 418; ZATTI, Manuale di diritto civile, Padova, 2009, pag. 1149, che parla, con riferimento al contenuto patrimoniale, di funzione primaria dell’atto. Contra, nel senso di testamento come negozio a causa di morte con esclusiva natura patrimoniale, CAPOZZI, Successioni e donazioni, t. 1, Milano, 2009, pagg. 745-746.
7 BONILINI, voce Testamento, in Digesto civ., XIX, Torino, 1999, 340
8 MESSINEO F., Manuale di diritto civile e commerciale, vol. VI, IX ed., Milano, 1962, pag. 3; CARAMAZZA G. , Del le success ioni tes tamentar ie, Libro I I art . 587-712, in Commentario teor ico-prat ico al codice civi le, di ret to da Vi t tor io De Martino, Novara, 1973, pag. 4; ampl ius, BONILINI G., Concetto, e fondamento, della successione mortis causa, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, vol. I, diretto da G. Bonilini, Milano, 2009, pagg.30-40, nonchè D’ALOIA A., La successione mortis causa nella Costituzione, ibidem, pagg. 43 ess].
9 NATALE, Autonomia cit., passim.
10 Diffusamente, BONILINI G., Introduzione a l’oggetto della successione, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, vol. I, diretto da G. Bonilini, Milano, 2009, pagg. 295 e ss.].
11 Apparenti eccezioni sono la tutela del diritto morale di autore affidata ai congiunti prossimi (in quanto tali, a prescindere dalla qualità di erede) ex artt. 20 e 20 L. 22.4.1941 n. 633, nonché le azioni di stato di disconoscimento di paternità (art. 246 c.c) o di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per violenza o interdizione (art. 267 cod. civ.): in realtà in queste ipotesi i congiunti agiscono iure proprio e non iure hereditatis.
12 BURDESE, voce Successione, II) Successione a causa di morte, in Enc. Giur. Treccani, vol. XX,Roma, 1993, pag. 2.
13 MESSINEO, op. cit., pag. 4. Il concetto di successione per causa di morte, poi, non coincide e non è coperto dal concetto di successione in generale, sol pensando che:
- il successore potrebbe non essere destinatario di un trasferimento o titolare di un acquisto (ad esempio nel legato di rimessione di debito, legato di cosa dell’onerato, legato che abbia ad oggetto un facere o un non facere dell’onerato);
- a rigore nel caso di acquisto derivativo-costitutivo non si verifica una successione traslativa;
- il successore può trovarsi a dover adempiere ad obbligazioni alle quali il defunto non era tenuto (i c.d. debiti dell’eredità, piuttosto che gli obblighi imposti dal testatore);
- in generale nella successione mortis causa non si verifica un’alienazione da parte del dante causa, piuttosto un trasferimento o trasmissione, che non implica un atto del titolare originario (potendo operare la successione ex lege) e non integra un atto inter vivos.
14 Per tutti, v. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, 1971. pag.89 e ss.; ALLARA, Le vicende del rapporto giuridico e le loro cause, Torino, 1939, pag. 39; CARIOTA FERRARA, Le successioni per causa di morte, vol. I: parte generale, Napoli 1959, tomo I pag. 34; BARBERO D., Sistema del diritto privato italiano, vol. II, Torino, 1962, pag. 858-859; MESSINEO, op. cit., pag. 4.
15 NATOLI, L’Amministrazione dei beni ereditari, vol.I, Milano 1968, pag. 88 e ss.